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Archive for the ‘Dittature’ Category

New York – Giugno 2018

Alex Jones breaks down how China has started implementing their social credit score system in 16 cities across their country, helping to fulfill the mark of the beast vision in the Book of Revelations.

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The Alex Jones Show ©copyright, Free Speech Systems.LLC 1995 – 2017 All Rights Reserved. May use for fair use and educational purposes

 

 

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Property and Freedom Society
Sixth Annual Meeting
Bodrum, Turkey, 26-30 May 2011
Karia Princess Hotel

Video shot by Sean Gabb,
Director of the Libertarian Alliance

Yuri Maltsev, Of Customs and Condoms. Moving from One Empire to Another

Un dissidente russo spiega in maniera circostanziata che non sussistono grandi differenze fra le politiche socialiste del partito Democratico americano e la moderna retorica sovietica. Ho specificato di proposito che si tratta di retorica “moderna”, non contemporanea, il che rende la situazione ancora piu’ paradossale perche’ vuol dire che stiamo andando addirittura in controtendenza. Il motto “move forward” scelto dal presidente americano e’ appropriato: si va avanti con la scusa del “bene comune” per smantellare quanto di buono e’ stato fatto…

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Da: il Foglio

“Perché questo bimbo è stato torturato a morte?”. Un padre svela al mondo la strage dei “fuori quota”

“E’ il più grande crimine contro l’umanità attualmente in atto, lo sventramento segreto e inumano di madri e figli, un Olocausto infinito che va avanti da trent’anni”.

Con queste parole la dissidente Chai Ling, leader del movimento di Tiananmen (dove era celebre per i discorsi al megafono, in cui incoraggiava gli studenti a continuare lo sciopero della fame), ha denunciato gli aborti forzati in Cina. “‘Politica-del-figlio-unico’ è un ordine di marcia per una brutalità cento volte superiore al massacro di Tiananmen, che accade alla luce del giorno, ripetuto ogni singola giornata”. Un dispotismo che coinvolge oltre un miliardo di esseri umani e che ieri è schizzato sul Web tramite questa fotografia (immagine forte che potrebbe impressionare) di un bambino mai nato.
Il bimbo era al settimo mese quando le autorità di Pechino hanno costretto la madre, Lu, ad abortirlo contro la sua volontà. Avrebbe dovuto essere un aborto ordinario nella provincia orientale dell’Anhui. Il piccolo ha sofferto insieme alla mamma, un’agonia di venti minuti, poi non si è più mosso. Ma il padre del bambino, di fronte a questa macabra esibizione di forza da parte del Partito comunista cinese, ha fotografato il neonato insanguinato e l’ha messo in rete. “Cosa ha fatto di male questo bambino da essere torturato a morte in questo modo?”, chiede un internauta. E un altro: “Queste sono le cose che facevano i ‘diavoli’ giapponesi e i nazisti”.

E’ nato anche un movimento di protesta contro gli aborti forzati, “Vogliamo giustizia”.

Secondo la presidente dell’organizzazione Women’s Rights Without Frontiers, Reggie Littlejohn, “in Cina il corpo di una donna non appartiene a lei, appartiene allo stato. L’utero di una donna è la parte più intima del suo corpo, dal punto di vista fisico, emozionale e spirituale. Per questo il Partito comunista cinese, agendo come ‘polizia dell’utero’, distrugge la vita all’interno di lei. E questo è un odioso crimine contro l’umanità. Nessun governo legittimo potrebbe commettere o tollerare un atto simile. I responsabili dovrebbero essere perseguiti”.

La politica demografica in Cina conferisce alle cellule locali il potere di decidere se una gravidanza sia permessa o no, se un feto debba essere abortito. Il personale impiegato conta 520 mila addetti, un impressionante esercito con potere di vita o di morte. Gli aborti praticati entro i primi tre mesi sono chiamati “aborti artificiali”, quelli praticati dopo “parti indotti”. L’attivista cieco Chen Guangcheng, emigrato negli Stati Uniti, è stato perseguitato per anni dal governo proprio per aver denunciato la pratica degli aborti forzati.
Nel giugno di un anno fa era stato il caso, sempre al settimo mese, di Feng Jianmei. Le foto la ritrassero riversa su un letto d’ospedale, con accanto il figlio morto frutto dell’interruzione di gravidanza forzata. Il Parlamento europeo, di solito connivente con il dispotismo cinese, un mese dopo la violenza subita da quella giovane madre approvò una risoluzione a proposito dello “scandalo” relativo all’aborto forzato in Cina.

L’articolo 49 della Costituzione cinese obbliga le coppie sposate alla pianificazione famigliare. “Figli unici, figli maschi, figli sani”. Una guerra veramente classista. Lu, la madre del bambino abortito al settimo mese, avrebbe dovuto pagare tremila euro di multa per salvare la vita del secondogenito. Priva di soldi per farvi fronte, ha dovuto sacrificare il figlio. La Cina è l’unico paese al mondo in cui la politica abortista è fonte di guadagno per lo stato. I funzionari pubblici incassano ogni anno quattro miliardi di dollari di tasse imposte a chi sfora la quota demografica.
Ha chiesto scusa la dottoressa Gao Xiao Duan, dirigente cinese per il controllo delle nascite, che ha testimoniato di fronte al Congresso degli Stati Uniti: “Quando trovavo una donna incinta al nono mese che non aveva il certificato, un medico iniettava il veleno nel cervello del bambino, che moriva e veniva gettato nell’immondizia. La mattina ero il mostro che feriva gli altri attraverso la barbarica politica cinese, la sera ero come tutte le mamme e avevo la gioia dei miei figli. A tutte quelle donne, a tutti quei bambini uccisi, voglio dire che mi dispiace, mi dispiace”.
La popolazione cinese si è ridotta di un terzo “grazie” alla politica demografica. Quattrocento milioni sono gli aborti eseguiti in trent’anni da Pechino. Tredici milioni all’anno. Millecinquecento all’ora. Venticinque al secondo.

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Fonte: the post internazionale

schiavi

Un’inchiesta di The Atlantic fa luce su di un fenomeno crudele e quanto mai attuale: la schiavitù. Due storie diverse, ma di un dramma comune. Ko Lin è un ragazzo del Myanmar che come tanti altri della stessa età, un giorno ha deciso di andarsene di casa per cercare lavoro. Un amico come compagno d’avventura e un bagaglio pieno di speranze hanno segnato l’inizio di un viaggio che si è poi trasformato in una drammatica esperienza.

Assunto come scaricatore di camion, che a decine varcano ogni giorno il confine trasportando dalla Thailandia qualsiasi tipo di merce, Ko Lin riesce a guadagnare quanto basta per tornare a casa e vivere serenamente con qualche risparmio da parte. Ma sulla strada del ritorno, incontra una persona che offre ai due amici un’interessante proposta lavorativa.

Dietro a quella allettante offerta si nascondeva l’inizio del loro incubo. Ko Lin e il suo compagno di viaggio erano caduti nella rete dei trafficanti umani. Otto pericolosi giorni di cammino attraverso la foresta prima di arrivare a Chonburi, non lontano da Bangkok, dove i due amici sono stati venduti come schiavi. All’inizio aveva cercato di porre resistenza, ma era stato prontamente picchiato fino a fargli perdere i sensi. Al suo risveglio si è trovato su un peschereccio in mezzo al mare. Da quel momento, la sua vita non gli apparteneva più. I suoi pasti e le sue ore di sonno, quando venivano concesse, erano decisioni che spettavano ai suoi padroni. Per lui solo lavoro, senza pause. Ko Lin è riuscito a liberarsi dalla schiavitù grazie ad un raid della polizia che gli ha permesso di tornare salvo a casa.

Quando la fame e la miseria governano la vita delle persone, per i trafficanti umani è facile trovare nuove vittime. Per questo Ma Moe aveva accettato di lasciare la sua famiglia e la sua città per andare a lavorare come domestica in Cina. Avrebbe potuto guadagnare tra gli 80 e i 150 euro al mese. Ma quell’amico di cui si era fidata, che le aveva offerto quell’opportunità, era la stessa persona che l’ha poi drogata durante il viaggio. Al suo risveglio Ma Moe non aveva idea di dove fosse. Non l’ha mai saputo. Da quel giorno non era più una persona ma un oggetto, lasciato per mesi in vendita come ‘moglie’ sul mercato nero. E sempre come fosse un oggetto, il suo padrone se ne era liberato lasciandola per strada quando aveva scoperto che era sieropositiva. Da lei non poteva avere figli e dunque era inutile. Senza più niente, Ma Moe voleva solo lasciarsi morire. Per sua fortuna un giovane di passaggio chiamò un numero verde per le vittime del traffico di esseri umani.

Le storie di Ko Lin e Ma Moe risalgono al 2012. Testimonianze dello scorso anno che dimostrano come il traffico di uomini e donne nel mondo non sia il ricordo di un triste capitolo della storia. Il numero di schiavi è addirittura di gran lunga aumentato rispetto a 150 anni fa. Secondo i dati dell’Ilo, Organizzazione Internazionale del Lavoro, attualmente le persone costrette in schiavitù sono circa 21 milioni. È la cifra storicamente più alta. Si tratta soprattutto di schiavi per debiti, persone costrette a lavorare per misere paghe per la restituzione di un prestito. È il caso dei migliaia di bambini afgani che ogni giorno devono lavorare nelle fornaci per ripagare i debiti della propria famiglia. Nelle regioni militarizzate poi e nei Paesi teatro di conflitti è molto frequente che gli individui più deboli o svantaggiati, quali i rifugiati o gli appartenenti a minoranze etniche, finiscano per essere costretti a lavorare o al reclutamento forzato.

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Saipem crolla in Borsa dopo un profit warning. La società è finita in un’inchiesta sulle attività in Algeria che affonda le radici nel contesto di una lotta di potere per la successione fra il presidente Bouteflika e i servizi segreti in uno dei paesi più corrotti del mondo. E che Linkiesta ha ricostruito in esclusiva.

La procura di Milano indaga sulle attività di Saipem in Algeria, nazione ricca di gas e petrolio ma devastata dalla corruzione, dove infuria una lotta di potere feroce ma sotterranea tra civili e militari. E dove è meglio non fidarsi di nulla di ufficiale. In un’inchiesta durata un mese e mezzo Linkiesta ha ricostruito la genesi della vicenda che ha coinvolto la compagnia petrolifera italiana.

«Scandalo Saipem in Algeria, cadono i vertici» scrive il Sole 24 Ore del 6 dicembre 2012. In effetti la notizia è di quelle esplosive: la notifica di un’informazione di garanzia a Saipem, società posseduta per il 43% da Eni e fra le principali al mondo nel settore dei servizi per l’industria petrolifera.

L’indagine della procura di Milano sui presunti reati di corruzione commessi entro il 2009, e relativi a dei contratti stipulati in Algeria, provoca in Saipem un vero terremoto. Si dimette l’amministratore delegato Franco Tali, storica guida della società, come pure il direttore finanziario di Eni Alessandro Bernini, che fino al 2008 ha ricoperto lo stesso incarico proprio in Saipem. E dopo l’avviso di garanzia a Pietro Varone, chief operating officer dell’unità Engineering and Construction, il CdA di Saipem ne delibera la sospensione cautelare.

Ma lo scandalo su cui stanno indagano i pm milanesi affonda le sue radici in una vicenda ben più intricata e oscura. Che ha colpito per prima la Sonatrach, la società nazionale degli idrocarburi dell’Algeria: infatti nel dicembre del 2009 i suoi massimi vertici sono stati posti sotto inchiesta dalla magistratura algerina, per presunte malversazioni.

Sia chiaro, l’Algeria non è certo un paradiso della legalità. Nella classifica di Transparency International sulla corruzione, la nazione nordafricana occupa il centocinquesimo posto (su 174 Paesi in tutto). Nel 2011 si pensava potesse essere contagiata dalla Primavera araba nata in Tunisia e diffusasi, seppur in modi e gradi diversi, in Egitto, Marocco, Libia, Giordania, Siria, Yemen e Bahrein. Così non è stato.

 

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L’Azerbaijan, luogo di una bellezza paesaggistica spettacolare ed ex repubblica sovietica, si affaccia sul Mar Caspio ed e’ una nazione assai travagliata. Dal 1990 ha riguadagnato l'”indipendenza” dalla Russia ma le lotte interne non sono mai cessate e diversi governi si sono avvicendati imponendosi in maniera assai poco democratica, tramite colpi di stato e attentati alla vita del premier di turno. Come e’ accaduto (e accade ancora) in altri territori, meteore, della galassia post sovietica, si sono combattute guerre civili di stampo etnico per la redifinizione dei confini e lo spartimento delle risorse; ricordiamo quella del Nagorno-Karabakh.

Come la maggior parte di queste nazioni che stanno ancora sperimentando e cercando la via della piena democrazia, ricche di risorse naturali come l’uranio, il coltan o gas e petrolio, come in questo caso, e’ afflitta da una poverta’ diffusa, spesso cronica, e gestita da una classe dirigente e manageriale corrotta e in affari con le disinvolte compagnie petrolifere estere e vari ed eventuali loschi figuri. Anni fa, quando lavoravo per una delle maggiori compagnie petrolifere internazionali, conobbi un ingegnere azero che lavorava su una delle piattaforme del Mar Caspio. Mi confermo’ che gli affari da quelle parti si fanno a suon di mazzette, corrompendo gli ufficiali e i politici locali. E’ una prassi ben consolidata in tutto il mondo, certo, ma e’ anche l’unica via da percorrere in certe nazioni.  L’Azerbaijan e’ sotto il mirino della commissione per i diritti umani da alcuni anni a causa di frequenti infrazioni: abuso di potere e uso di forza contro i cittadini, censura sistematica dei mezzi di comunicazione.

Alcuni giorni fa a Baku, la capitale, sono avvenuti scontri fra la polizia e i gestori dei negozi del piu’ grande shopping center della nazione. Il motivo della protesta, che e’ stato smentito dai managers del centro, tutti aventi legami col governo pare, risiede nell’aumento dell’affitto dei negozi, aumento che costringerebbe molti negozianti a cedere l’attivita’. Quindici dei circa mille dimostranti sono stati arrestati e malmenati dalla polizia, sembra che la polizia abbia usato contro di loro anche proiettili di gomma, mentre altri 5000 hanno aderito alla protesta chiudendo gli esercizi.

Notizia tratta da: Radio Free Europe

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Fonte: Osservatorio Balcani e Caucaso

Dal prossimo primo ottobre in Moldavia falce e martello e tutti gli altri simboli comunisti saranno vietati. Entrerà infatti in vigore una legge approvata dal parlamento moldavo quest’estate che condanna i crimini del comunismo e dei regimi totalitari. Acceso il dibattito nel Paese tra liberaldemocratici e comunisti

Dal prossimo primo ottobre in Moldavia falce e martello e tutti gli altri simboli comunisti saranno vietati. Entrerà infatti in vigore una legge approvata dal parlamento moldavo quest’estate che condanna i crimini del comunismo e dei regimi totalitari*. La legge non è stata votata naturalmente dal Partito comunista moldavo, il principale del Paese pur se all’opposizione, che ha lasciato l’aula in segno di protesta durante la votazione ed ha ricorso contro la legge presso la Corte costituzionale. Anche il Partito socialista ha votato contro.

*Leggi anche: “Risoluzione del Parlamento europeo del 2 aprile 2009 su coscienza europea e totalitarismo

21 anni dopo

La Moldavia era dal 1940 una delle repubbliche costituenti L’Unione sovietica. E’ divenuta uno stato indipendente nel 1991. Da allora sono passati 21 anni e molti opinionisti dei principali media del paese hanno sottolineato – commentando la nuova legge che entrerà presto in vigore – come si sia arrivati ad adottare tali provvedimenti molto tardi, diversamente da quanto accaduto in altri Paesi ex-comunisti che si sono ben prima allontanati da ideologia e simboli del comunismo. Secondo la nuova legge è vietato utilizzare simboli comunisti a scopi politici o di propaganda. Il primo a subirne direttamente le conseguenze sarà il Partito comunista moldavo. In tutti questi anni quest’ultimo ha largamente utilizzato i simboli ex sovietici, anche per attrarre i voti di pensionati e nostalgici dei tempi che furono. Se il Partito comunista non cambierà “logo” rischia ora di non poter partecipare alle prossime elezioni politiche. Secondo Vitalie Catana, esperto in questioni costituzionali, subito dopo l’entrata in vigore della legge e se la Corte costituzionale non eccepirà nulla, il Partito comunista sarà effettivamente costretto a ripensare i simboli politici che adotta. “Il rifiuto potrebbe portare a sanzioni pecuniarie ma addirittura al blocco delle loro attività”, ha specificato Catana. Proseguendo per questo scenario Catana afferma che i seggi parlamentari ora dei comunisti verrebbero divisi tra le altre forze politiche rappresentate in parlamento.

Il dibattito politico

E’ un provvedimento che lacera la società moldava, perché a molti sta a cuore il periodo comunista”, ha sottolineato Vladimir Voronin, presidente del Partito comunista. “Non vi è più un parlamento ma un manicomio”, ha poi aggiunto in modo meno diplomatico dichiarando di essere molto arrabbiato e che si è trattato di un’azione premeditata contro il partito che dirige. Intanto Voronin ha annunciato ai proprio sostenitori che il Partito comunista non rispetterà questa legge e non si arrenderà. “Questi simboli non riflettono solo l’ideologia del partito ma hanno radici storiche nella lotta contro il fascismo”. Secondo Victor Popa – parlamentare della maggioranza di governo e a capo della Commissione parlamentare sulla giustizia – il nuovo provvedimento a condanna dei sistemi totalitari non minaccerebbe l’esistenza del Partito comunista. “Vengono vietati i simboli comunisti e non l’attività del Partito comunista” ha specificato “ed è proprio per questo che anche il ricorso presso la Corte costituzionale non avrà alcun successo”.

Sono simboli che rimangono ingombranti nella memoria delle migliaia di deportati in Siberia ed è questo uno dei motivi a favore dell’approvazione di questa legge”, ha tenuto a ribadire Mihai Gimpu, leader del Partito liberale e autore della proposta di legge poi passata in parlamento.

E’ stato un grande errore dell’Europa non condannare i comunisti come si fece con i nazisti al processo di Norimberga. La falce e il martello sono i simboli sotto i quali persone innocenti vennero deportate in Siberia e uccise

ha chiosato il leader liberale. Concorda lo storico Octavian Ţicu secondo il quale la legge era un atto dovuto e la Moldavia non poteva parlare di alcuna integrazione europea senza prima condannare le atrocità commesse dal regime comunista. D’altro canto però, e lo nota il giornalista Petru Bogatu, si potrebbe rimanere scettici nei confronti di quei politici che s’affannano a condannare i regimi totalitari ma lo fanno come se fosse un gioco politico e una maniera per mietere consensi.

Un sacrilegio!

La Russia, per voce del suo vice ministro degli Esteri Grigory Karasin, ha reagito negativamente alla nuova legge moldava. “Non è nient’altro che un sacrilegio. La Russia, un paese dove la stella, la falce e il martello sono il simbolo della vittoria, non tacerà su quando sta accadendo”, ha dichiarato quest’ultimo. Karasin si è poi dichiarato speranzoso che “le forze politiche sane in Moldavia contrastino questa decisione e trovino le vie legali per combatterla”. Come primo passo vi è già stato il già citato ricorso costituzionale, presentato dall’avvocato del Partito comunista Sergiu Sârbu. Quest’ultimo ha inoltre richiesto che il caso venga esaminato con urgenza senza aspettare tutti i 6 mesi previsti dai termini di legge.

Monumenti a rischio

La nuova legge rischia di causare conflitto sociale anche in merito ai numerosi monumenti del periodo comunista che costellano il Paese. Verranno demoliti? “I sostenitori del Partito comunista si opporranno con tutte le loro forze all’abbattimento di monumenti costruiti in riconoscenza ai soldati della Seconda guerra mondiale”, ha sottolineato Grigore Petrenco, deputato tra le fila del Partito comunista. Dalla coalizione governativa sono arrivate alcune aperture. “Non vedo perché i memoriali al valore militare debbano sparire”, ha dichiarato il leader del Partito democratico, uno dei tre partiti che compongono la coalizione governativa, Marian Lupu. Per il Partito liberaldemocratico, il terzo partner governativo, i 40 monumenti dedicati a Lenin in Moldavia e gli oltre 300 dedicati ai soldati sovietici potrebbero invece essere rimossi e conservati in un museo dedicato al totalitarismo. Il primo ministro Vlad Filat, esponente di questo partito, ha dichiarato in modo meno conciliante dei suoi partner di governo che è arrivato il momento di liberarsi di Lenin e dei carri armati sovietici.

Società divisa

Poco prima dell’adozione della legge a Rîşcani, Moldavia settentrionale, è stata tolta dalla sua posizione originaria una statua dedicata a Lenin. Il monumento è stato abbattuto con un trattore a seguito di una decisione del consiglio comunale. I sostenitori del Partito comunista hanno veementemente protestato richiedendo il ripristino del memoriale, per ora senza successo. Nella seconda città per popolazione della Moldavia, Bălți, nel cui consiglio comunale il Partito comunista moldavo è in maggioranza, le autorità locali stanno invece difendendo strenuamente i monumenti di epoca sovietica. Dopo che molti di questi ultimi sono stati imbrattati con simboli fascisti ora vengono controllati a vista da controllori e le autorità locali stanno pensando all’installazione di telecamere. Negli ultimi anni un numero sempre maggiore di monumenti di epoca sovietica è stato vandalizzato o distrutto. In controtendenza, negli anni in cui è stato al potere il Partito comunista moldavo, 13 monumenti in precedenza abbattuti sono stati riportati al loro posto. Sulla questione rischia quindi di esservi molta conflittualità sociale. Senza escludere anche che tutto questo possa avere influssi negativi nel dialogo con la regione separatista della Transnistria, che proprio sui simboli sovietici fonda la propria autoproclamata statualità.

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‘Because I am surrounded by good people, I try to do what good people do. But it is very difficult. It does not flow from me naturally. . . . I am evolving from being an animal. But it is going very, very slowly.” Shin Dong-hyuk was speaking to Blaine Harden, a reporter for Frontline and a contributor to The Economist who has served as the Washington Post’s bureau chief in East Asia. Harden has recently authored the gripping memoir Escape from Camp 14: One Man’s Remarkable Odyssey from North Korea to Freedom in the West.

As Harden recounts, Shin was born in 1982 in Camp 14 in North Korea, a “no exit” political camp largely populated by entire families. It is one of six camps that may hold a total of 200,000 prisoners, the biggest of which occupies an area larger than Los Angeles. These camps are clearly visible in satellite reconnaissance photos, but North Korea denies that they exist.

Shin is believed to be the first person born in such a camp ever to escape. His family was there because his father’s two brothers fled south during the Korean War. Until his escape, Shin was always infested with lice. There was never any water for bathing or even a way to brush one’s teeth. Everyone smelled like a farm animal, so no one else was bothered by the odor. The camp diet was corn, cabbage, and salt. Pellagra was a common cause of death. To this day, the only fertilizer generally available in the camps and in the country as a whole is human excrement. In 2008, South Korea halted donations of chemical fertilizer in response to provocations from the North.

In the camp, children go to school to learn the most basic of skills — reading, writing, addition, and subtraction, which are judged to be all they need to know to prepare them for a life of backbreaking labor. Shin’s teacher was a uniformed guard with a pistol. During his first 23 years, Shin saw only one book, a Korean grammar. One day his teacher found five kernels of corn hidden in the filthy clothes of a student, a six-year-old girl. She was made to kneel on the concrete floor while the teacher beat her over the head with his pointer. Bumps on her skull appeared, blood flowed from her nose, and she collapsed. Several students were ordered to carry her home, where she died that night. Shin and his classmates were indifferent to what was happening before their eyes. She had broken the rules; she deserved her punishment.

Shin felt differently when, at age 14, he watched as his mother was hanged and his brother faced a firing squad: He hated them. She would beat him when he stole her food, and he had seen her cooking rice, an unheard-of delicacy, for his brother. When Shin overheard his mother and brother planning an escape, he dutifully reported it to a guard, but the guard took credit for uncovering the plan, so Shin and his father were tortured in a hidden underground dungeon for months in the certainty that they had known of the plan and had not reported it. Shin was suspended by ankle and wrist shackles over hot coals. When he writhed away from the heat, his torturer slammed a hook into his pubic area to hold him in place.

When the guard’s duplicity was discovered, he disappeared and Shin and his father were released to witness the executions. His mother and brother deserved their punishment, he believed. He had not deserved his.

L’articolo prosegue su: National Review Online

(l’articolo puo’ anche essere ascoltato da una voce narrante in inglese)

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